Un libro che offre più di quello che promette. Parte come la storia di un’amicizia impossibile, uno dei tre piani del libro e delle tre storie di dialoghi difficili, intrecciate tra di loro, tra parentele e conoscenze, che vengono in contatto e in urto. In effetti è molto di più e quell’orizzonte che all’inizio appare definito, Gerusalemme e i suoi quartieri che definiscono il sottotitolo di ogni capitolo, privo invece di titolazione e affiancato solo da un numero progressivo, perché diventa metafora di ogni zona di conflitto come terreno di gioco e di spartizione dei contrari, che però è anche allegoria della vita, raramente un monocolore. La tinta unita sembra piuttosto un approccio che un punto di partenza, alla quale si arriva non senza sofferenza, tentativi ed errori, qualche deragliamento. I piani all’inizio distinti, sono sempre più intrecciati, senza perdere il filo ed Elisabetta si definisce un’abile narratrice. Non sembra interessata alla lingua. Non è lo stile, per altro piano e scorrevole, il suo interesse: buono per altro il dosaggio di termini ebraici, di informazioni culturali, religiose e di nozioni sul Paese con note, chiare che non appesantiscono la lettura.
C’è l’amicizia che pare impossibile tra l’arabo Ibrahim, che coltiva il sogno proibito “religiosamente” della musica e alla fine lo sceglie e Baruch, ebreo di una famiglia fortemente religioso, che sogna la trasgressione della pittura e poi sceglie non senza sofferenza lo studio del Talmud. Un’amicizia difficile che insegnerà ad entrambi il valore della sincerità e del rispetto delle divergenze anche quando non c’è e non ci può essere condivisione. Accanto la storia di due giovani, la sorella di Baruch e un ebreo etiope, due mondi diversi e due famiglie rivali, dove l’amore e la giovinezza oltre che il senso pratico delle rispettive madri, riesce nell’accordo. Infine l’amore tra una giornalista e un cameramen che sceglie di essere solo fotografo, conosciutisi negli Stati Uniti, adulti con un passato pesante alle spalle, l’incapacità e la consapevolezza dolorosa di non riuscire a superare l’attaccamento al proprio paese per amore dell’altro e, insieme, la certezza di non voler vivere in un paese che non amano più come l’America per Victor, o Israele per la giornalista. Il libro in modo sottile e con un tocco leggero scava nella tortuosità della vita di ognuno di noi che si nasconde dietro stratificazioni inimmaginabili e fa i conti con i condizionamenti molti dei quali sono proprio legati a noi stessi. Soprattutto racconta come nessuna vita sia totalmente svincolata da legami e da pulsioni contraddittorie: solo che in alcuni luoghi e condizioni storiche o sociali come la Gerusalemme delle diverse comunità religiose, i toni sono esacerbati e alle persone viene imposta una linea di condotta per cui emerge più facilmente la lacerazione e, se è più dolorosa, porta per forza alla necessità di una riflessione dalla quale si può uscire sconfitti o protagonisti. C’è chi, come la madre di Victor, resterà per sempre con uno strappo interno perché non si può vivere senza una parte di sé, chi è pronto a sacrificare un polo riuscendo a dare una priorità e chi a trovare una conciliazione tra i due poli. In ogni caso la vita per una persona sana è più forte di tutto ed è una spinta a risolversi: Victor supera un lutto atroce, un amore impossibile e si apre ad un nuovo varco, guardando avanti.
Ben tratteggiati i personaggi e quell’ironia non senza sarcasmo, oltre che l’ambiente polifonico di una Gerusalemme che l’autrice sembra di conoscere bene. Alla fine del romanzo non si può non pensare ad una sceneggiatura cinematografica.
Corri più che puoi
romanzo
di Maria Elisabetta Ranghetti
EdiKit
marzo 2017
15,00 euro
Articolo di Ilaria Guidantoni